Una foto del mare per vivere lentamente e serenamente.
Vita sostenibile

Cos’è il vivere lento e che cosa mi ha insegnato

Non ho tempo è il mantra che accomuna una buona fetta degli abitanti del Pianeta Terra in questo XXI secolo. Essere perennemente impegnati, sempre sul pezzo, aggiornati su tutto e tutti, vivere di caffè, esaurimento e tachicardie varie ed eventuali pare faccia impazzire di goduria l’abitante medio del modello di società dove il “Il tempo è denaro, hai capito scansafatiche?”

Il “non aver tempo” è uno status symbol al pari dell’Apple Watch, niente più e niente meno. A scapito, però, della genuinità del tempo stesso. Ché va bene il fatto di essere tutti diversi e di avere prospettive differenti, ma persino in qualche anfratto delle celluline più allucinate dallo slogan iltempoèdenaro c’è almeno quell’1% di stress spasmodicamente nocivo causato dall’euforia capitalistica del orasubitoimmediatamenterapidochesenononvaliamonulla (la senti l’ansia di leggere questa “cosa” tutta di fila, vero? Sì, appunto).

Ecco perché ho preferito virare per i lidi più pacifici del vivere lento, aka slow living.

Cos’è lo slow living?

Partiamo dalle basi: vivere lentamente non vuol dire svegliarsi ogni giorno alle 10 o trascorrere il pomeriggio dondolandosi su un’amaca sotto una palma. 

Se puoi farlo, buon per te. Se non puoi farlo, mantieni la calma ché tanto il punto non è questo.

Vivere lento, anche noto come slow living, è un modo di approcciarsi alla vita che predilige la qualità sulla quantità, la lentezza di assaporare il momento presente contro la perenne e ansiogena rapidità con cui siamo abituati a vivere le nostre vite.

Vite che ci scivolano addosso presi dalla frenesia del farefarefare o di recuperare quello che il farefarefare non ci fa fare, il tutto utilizzando le medesime ansiogene modalità.

In nome di una vita in un tritatutto, mandiamo a quel paese la salute, felici di rosolare in un esaurimento continuo – aka burnout

Non è un caso che lo slow living si sia sviluppato a partire da una tendenza legata in parte proprio alla salute: le sue origini risalgono, infatti, al movimento tutto italiano dello slow food, sviluppatosi alla fine degli anni Ottanta in contrapposizione all’emergere, anche e purtroppo nel nostro paese, delle catene di fast food (Mc Donald & Co).

Nel tempo il concetto di vivere lento è evoluto fino ad inglobare pattern appartenenti alla sostenibilità ambientale, al minimalismo e a tutti quei movimenti contrapposti ai fenomeni capitalistici e consumistici più puri.

Quattro cose che mi ha insegnato lo slow living

Vivere lentamente non è una dottrina a cui si aderisce per iscrizione, tesseramento o semplice partito preso.

Non esistono delle leggi, né una lista di buoni comandamenti da seguire alla lettera.

La chiave è riscoprire il proprio giusto e genuino tempo, liquefacendo le sovrastrutture mentali che ci hanno gettato nel tritacarne. E ciascuno è libero di farlo a suo modo.

In particolare, questo approccio mi ha insegnato molto relativamente a quattro aspetti della mia vita: crescita personale, rispetto dei tempi, qualità vs. quantità, accettazione.

Cambiare e migliorare me stessa

Lavorare su sé stessi e la propria crescita personale è il punto di partenza di qualsiasi cambiamento. Non possiamo migliorare la nostra vita se prima non siamo pronti a metterci in discussione, a cambiare quelle parti di noi che risultano essere tossiche e nocive nei confronti del cambiamento cui aspiriamo.

Un passo tanto fondamentale quanto difficile: siamo, infatti, particolarmente sensibili alle critiche. Metterci in discussione? Riconoscere di avere torto? Che qualcosa in noi debba essere modificato? Richiede fatica, troppa fatica. “Che cambino gli altri. Anzi, dipende solo dagli altri… la colpa è fuori. Mica mia.” Di solito funziona così: esternalizziamo e ci deresponsabilizziamo.

Eppure così non miglioreremo mai nulla.

Ecco quindi il punto: magari la crescita personale non è neanche un punto fondamentale dello slow living; ciononostante la implica, in quanto non possiamo rallentare e cambiare delle abitudini a noi nocive se prima non mettiamo in discussione noi stessi.

A tal riguardo, inoltre, non ci si richiede di fare il passo più lungo della gamba: è graduale, dura tutta la vita. E quando non riusciamo, possiamo affidarci a degli esperti in salute mentale e crescita personale che sono là fuori proprio per aiutarci.

Rispettare i miei tempi

Questa è stata difficile da inghiottire, ma una volta digerita è pura normalità e ovvietà: ognuno ha i suoi tempi. Ciò non vuol dire che si deve attraversare col rosso perché si è lenti e non abbiamo beccato il verde. Si tratta, piuttosto, di una questione di realizzazione personale.

Si cresce con scadenze prefissate in base alle quali se entro una certa età non si fa X allora basta, fine, fallimento compiuto.

Eppure, eppure: c’è chi scopre la propria vocazione a 6 anni e chi a 50, così come c’è chi decide di imparare il cinese a 83 anni (ho conosciuto questa persona) e chi, al contrario, sta bene con sé stesso a 25 e resterà così per tutta la vita.

Ecco: il rispetto per i propri tempi personali è fondamentale. Si tratta tuttavia di un approccio ancora poco radicato e per comprenderlo si passa spesso da giri di boa abbastanza complessi, talvolta dolorosi.

Motivo per cui vorrei contribuire a normalizzarlo, fosse che qualcuno si eviti ‘sti giri.

Fare una cosa per volta e con consapevolezza

Hai presente quando mangi e nel frattempo leggi il giornale, guardi la TV, scrolli il cellulare? Oppure parli al telefono con tua madre e scrollando la home del social di turno, perdendo la conversazione strada facendo tra svariati mmm, sì, certo senza però ascoltare nulla e lasciando che quella persona prosegua una conversazione unidirezionale. O magari inizi un lavoro, non lo porti a termine, ne inizi un altro, non lo porti a termine, ne inizi un altro… e così fino ad accumularne 30 e ritrovarti impagliato, con l’acqua alla gola e la tachicardia.

La nostra vita quotidiana è piena di simili esempi: vuoi per noia, vuoi per brutte abitudini, vuoi per disinteresse. E va bene quando capita l’imprevisto e ti ritrovi a dover stipare una dozzina di attività in due ore, ma se l’eccezione diventa la regola, beh, credo sia arrivato il momento di un reset.

Il punto è che siamo stati educati al fatto che fare multitasking, ovvero tante cose contemporaneamente (magari realizzate pure male) sia bello, sia la norma. Così sommiamo e accatastiamo attività su attività, azioni su azioni ad ogni ora della nostra vita, normalizzando quel senso di soffocamento che accompagna il troppo.

Tra l’altro, agiamo in questo modo senza una minima consapevolezza di ciò che creiamo, perché la nostra testa è altrove.

Se c’è una cosa sulla quale mi sono impuntata e che per una persona vissuta a pane, multitasking e ansia è stato – ed è ancora, mica le distruggi così certe abitudini – difficile, è proprio quello di fare una cosa per volta. Un passo dopo l’altro. Un giorno alla volta. Un’ora alla volta. Sia che si tratti di routine quotidiana, sia che, invece, spazi verso progetti per il futuro e simili elucubrazioni mentali.

Per una persona ansiosa è normale incolonnare pensieri e attività, e da quando ho cominciato a lavorare su me stessa (vedi il punto 1) sono riuscita a rallentare su tutti i fronti, ivi compreso quello del multitasking. 

Ogni tanto mi succede ancora di dedicarmi a una cosa e, nel frattempo, del tutto dimentica del qui e ora, pianificare la successiva. Per fortuna ho sviluppato una sorta di allarme interno che mi riporta al momento presente: è come un muscolo, più lo alleno, meglio funziona. 

Se faccio la spesa, faccio la spesa; se parlo con X, parlo con X. Cerco di essere lì, vivendo un momento presente che non è altro, poi, che un costante passato. Perché vorrei fare volentieri a meno di quei melodrammatici attimi in cui con malinconia sospirare “Eh, mi sembra di non essermi goduta abbastanza quel momento, cosa farei per…”.

Accettare il silenzio e il vuoto

In buona parte dei casi – non sempre, come ogni cosa – impallare la nostra quotidianità col traffico mal regolato di progetti, eventi, attività svolte senza consapevolezza e rapidamente è causato dall’atavica paura del vuoto e del silenzio.

Ritrovarsi da soli? In silenzio davanti, boh, a una tazza di tè? O magari in solitudine, sulla spiaggia, a fissare un bel tramonto sul mare? Ma scherzi? Non ci riuscirei. Poi mi cominciano a girare strane cose in testa che non mi piacciono (eh, appunto, vedi come torna sempre il punto 1?).

Vivere lento vuol dire anche aprirsi ai silenzi e ai vuoti che possono caratterizzare le nostre giornate e accettarli per quello che sono. 

Pause e sospensioni che ci permettono di connetterci con noi stessi e con l’ambiente che ci circonda, purché siamo aperti a farlo, a riflettere, smussarci, scrostarci e ricomporci. E non c’è niente di male. Al contrario: rifiutare ostinatamente il silenzio e l’inattività, riempiendo costantemente la nostra vita di fuffa, dovrebbe farci suonare più di un semplice campanellino d’allarme.


Per concludere, vivere lento può essere considerato un termine ombrello che racchiude un insieme di modi di fare improntati al rallentare, alla consapevolezza, al giusto ritmo, alla qualità sulla quantità. Un approccio che, a partire dalla piccola abitudine, può essere applicato a ogni dimensione della vita.

Non occorre cambiare tutto subito, anzi: graduale è meglio. E va bene anche farsi aiutare se il processo risulta più complicato del previsto. Il gusto riscoperto per la genuinità e la qualità che arrivano dopo, però, ne vale ogni singolo sforzo.

G.

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